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Architectural Talks, Manni Group incontra Zamboni Architetti Associati

MGDA & YACademy

Andrea Zamboni, AD di ZAA intervistato da Manni Group

Architectural Talks, la serie di interviste realizzate da Manni Group in collaborazione con Yacademy, incontra Andrea Zamboni, Ph.D Architetto – Associato e Amministratore Delegato di Zamboni Architetti Associati.

 

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Zamboni Architetti Associati

Lo studio viene fondato nel 1974 dal padre di Andrea, Ing. Maurizio Zamboni, e diventa Zamboni Architetti Associati nel 2009, quando Andrea diventa associato.
ZAA ha realizzato e progettato edifici commerciali e industriali, spazi pubblici, restauri, piani di riqualificazione, masterplan urbanistici e paesaggistici, lavorando su scala locale, nazionale e internazionale.

Tra i progetti di riqualificazione più famosi di ZAA troviamo il recupero urbano di Isola San Rocco a Reggio Emilia, esempio di restauro contemporaneo dell’architettura moderna di Luigi Vietti, ma anche Fonderia Lombardini-Aterballetto, tra i principali esempi di riuso del patrimonio industriale in Emilia-Romagna. 

Lo studio ha vinto nel 2020 il Big See Architecture Award per la rigenerazione dei Chiostri di San Pietro di Reggio Emilia, e per lo stesso progetto è risultato finalista nel 2021 il Premio Nazionale Italiano di Architettura promosso da MAXXI e Triennale di Milano.

Zamboni Architetti Associati è un esempio di sperimentazione nel campo della ricerca e dell’innovazione, che mette al centro i bisogni umani in relazione al contesto ambientale e funzionale.

L'intervista ad Andrea Zamboni, amministratore delegato

Manni Group: Lo studio Zamboni Architetti Associati cura numerosissimi interventi di rigenerazione, dal manufatto storico all'archeologia industriale. Quanto può e deve essere realizzato off-site in interventi di questo tipo? 

Andrea Zamboni: Sì in effetti il nostro studio si occupa parecchio di Heritage in senso ampio… E per Heritage si intende appunto dall'antico, al recupero dell'archeologia industriale, fino anche al restauro del moderno, per esempio.
Diciamo che l'ambito che si presta meglio per l'off-site sarebbe il recupero dell'archeologia industriale, perché lì ci sono delle problematiche specifiche di cantiere, problematiche anche di reperimento dei materiali delle strutture tali per cui normalmente le strutture che andiamo a generare dentro questi fabbricati sono strutturalmente autoportanti, quindi di fatto si prestano a questo tipo di operazione. Al capannone 15 al Parco Innovazione Reggiano stiamo lavorando in questo modo, e più in generale l'off-site aiuta, certo, aiuta molto.
Ci sono alcuni contesti in cui è più complicato, tipo nei contesti vincolati, però si sposerebbe anche con quello che chiede la Soprintendenza, cioè la reversibilità degli interventi. E quindi, tutto sommato, questo effettivamente faciliterebbe la vita. 

M.G.: Architetto Zamboni, lei ha un passato nel Centro Studi Domus… Quale ritiene sia il percorso dell'architettura contemporanea in merito alle tematiche di sostenibilità ambientale?

Zamboni: Sì, nel periodo a Domus, diciamo il mio ruolo era anche quello di andare un po’ a indagare, a scoprire, nuovi filoni di progettazione un po’ in giro per il mondo.
Devo dire che sulla sostenibilità c'è, oggi lo si dà per scontato, in tutti i progetti tutto deve essere sostenibile, altrimenti non avrebbe neanche senso portarli avanti.

La traduzione più diretta della sostenibilità di solito porta a risultati poco soddisfacenti, mentre ci sono dei progetti che introiettano, diciamo, il concetto di sostenibilità proprio nella composizione stessa, cioè il progetto è ben pensato, con buon senso e con intelligenza e quindi risolve alla radice le problematiche della sostenibilità. Perché risolverle, come si faceva fino a poco tempo fa a progetto fatto e quindi quando mancano degli elementi per andare a renderlo sostenibile, è l'approccio sbagliato, sicuramente.

Per esempio, ci sono edifici che sono strutture molto disperdenti, a quel punto ci si inventa soluzioni di facciata, ma è l'approccio sbagliato… Andrebbe studiato appunto alla radice nel momento della concezione del progetto. E mi pare che l'architettura contemporanea si stia muovendo in quella direzione, o meglio le avanguardie più interessanti. 

M.G.: Quindi puntare a un’organicità. 

Zamboni: Diciamo che un buon progetto nasce sostenibile e lo troviamo anche nei progetti del passato, anche del passato più antico. E spesso anche i materiali antichi sono i più sostenibili, ma non necessariamente sono gli unici. Anche materiali nuovi e innovativi possono essere usati in modo sostenibile o insostenibile, e lì sta la differenza, il progetto e quindi l'approccio.

M.G:: Grazie. Parliamo adesso dei Chiostri di San Pietro, uno dei progetti più noti, più iconici del vostro studio. E qui la dicotomia tra l'antico e il moderno, il contemporaneo è evidente. Secondo lei quale deve essere il rapporto dell'architetto con la pre-esistenza? 

Zamboni: In generale, dico sempre ai miei studenti che tutto quello che noi facciamo come architetti va su una pre-esistenza di fatto. Anche se ti commissionassero un lavoro in mezzo al deserto, comunque il deserto ha una storia, per quanto difficile da scovare. Quindi di fatto l'approccio che bisognerebbe avere, qualunque sia l'oggetto, è quello di un rispetto del contesto e dell'oggetto verso il quale ti stai ponendo.

I Chiostri di San Pietro sono un caso estremo, perché parliamo del chiostro grande disegnato da Giulio Romano, allievo di Raffaello. Di per sé è quasi un intoccabile, e pensare di poter lavorare e mettere le mani su un oggetto disegnato da Giulio Romano ci dava una certa ansia nelle prime fasi.
Dopodiché l'abbiamo risolto in questa maniera: l'abbiamo pensata come se tutte le nostre città di fatto fossero un “non finito”.
Tutti gli interventi che noi andiamo a fare si pongono in una catena temporale che ha un arco estremamente lungo e noi lavoriamo su una piccola fase di questo lasso di tempo. E quindi quello che faremo non dovrà essere ovviamente irreversibile, dovrà tenere aperte future trasformazioni.
I Chiostri di San Pietro li abbiamo pensati in questa maniera, tant'è che abbiamo completato il lavoro facendo un libro che si chiama “Non finito”, che non vuol dire che non abbiamo completato il lavoro o che l'amministrazione non ci avesse dato i soldi per finirlo.

Non è questo, ovviamente c'erano tutte le condizioni per poterlo finire, ma la verità è che qualunque opera di architettura tu faccia, anche le nuove, devono lasciare spazio alla trasformazione, cosa che succede normalmente anche nei nostri progetti. Ci chiamano successivamente a trasformare internamente degli spazi, magari anche in un modo che noi non avevamo pensato all'inizio. E questo è sempre una sfida costante. Per esempio, ai Chiostri di San Pietro adesso dovremmo fare una sorta di spazio ristoro che non era pensato in origine, e questo andrà a cambiare alcune cose ma vanno sempre gestite nell'alveo del progetto.

M.G.: L'evoluzione va sempre tenuta in considerazione.

Zamboni: Eterna trasformazione, eterno non finito. 

M.G.: Ecco, a proposito di trasformazione, parliamo di discontinuità. La tecnologia delle costruzioni permette di distinguere le stratificazioni di materiali di periodi storici differenti. In questo caso, quanto i materiali, le superfici, i prodotti dell'industria della costruzione possono aiutare il progettista nella continuazione del pensiero contemporaneo, e soprattutto quanto questo può essere un tema più di linguaggi o di materiali?

Zamboni: Sì, è una bellissima domanda, perché in realtà riassume un intero modo di lavorare. A me personalmente, il giunto, cioè il punto di contatto fra i materiali, è la parte del progetto che mi affascina di più, quella dove una forma astratta, si traduce in forma costruttiva e diventa forma architettonica. C'è stato un periodo abbastanza lungo in cui tutta l'architettura era spinta verso il minimalismo, verso soluzioni visivamente molto elementari.

La verità è che la traduzione in forma elementare è sempre molto complessa, deve passare attraverso una fase in cui, nello sviluppo del progetto esecutivo, i dettagli parlano… E non parlano solamente dell'aspetto costruttivo, ma si traducono in forma architettonica.

Il giunto, il punto in cui si toccano i materiali nasce anche dal fatto che lavoriamo spesso con l'antico. Quando per esempio una superficie antica si tocca con una contemporanea, quando un nuovo materiale tocca una superficie antica, in quel punto di stacco hai il punto di contatto. È quasi il punto in cui risolvi la forma architettonica. Gli dai un aspetto che corrisponde a un'esigenza costruttiva formale e spesso diventa anche un elemento iconico.

Manni Group: Bene, grazie

Andrea Zamboni: Grazie a voi

Leggi le parole dei principali attori dell'architettura internazionale nelle interviste agli Archistar di Manni Group realizzate in collaborazione con Yacademy. 

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Scritto da

Raffaele Bulgarelli - Digital Marketing Expert presso Manni Group
Raffaele Bulgarelli - Digital Marketing Expert presso Manni Group

Raffaele, Digital Marketing Expert di Manni Group, collabora in modo sinergico con Isopan entrando in contatto con il mondo tecnico del pannello sandwich e osservando i trend evolutivi dell’edilizia. Grazie alla formazione in Architettura ha un occhio attento su temi e attività online che coinvolgono i progettisti e gli architetti.

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