Il protagonista di oggi del ciclo di interviste condotto da Manni Group, in occasione della nuova edizione della YACademy, è l’architetto Yama Karim, partner di Studio Libeskind, lo studio di architettura e progettazione, fondato dall’archistar Daniel Libeskind, celebre per la poliedricità e la visione ottimista dell’architettura, proiettata al futuro ma con un occhio al passato.
Cosa troverai in questo prezioso contenuto, oltre l’intervista:
“L’architettura non si basa sul calcestruzzo, l’acciaio e gli elementi del suolo. Si basa sulla meraviglia”.
In queste poche parole è condensato tutto il pensiero di Daniel Libeskind e del suo studio di architettura e progettazione urbana di New York, di cui fa parte dal 2003 anche Yama Karim, nella doppia veste di principal architect e partner.
L’architettura dello Studio Libeskind è assimilabile ad una forma d’arte scultorea. L’opera architettonica è un qualcosa di decostruito, priva di geometrie rigide che esalta l’asimmetria, i piani scomposti e la plasticità di volumi.
Questo pensiero si traduce in costruzioni dalle forme complesse con linee e superfici spezzate, e con i caratteristici tagli nei volumi e nella materia che lasciano filtrare la luce dando movimento agli edifici.
Dietro questa complessità, c’è comunque la volontà di creare strutture pratiche e sostenibili, combinando tecnologie costruttive innovative e tradizionali, che tengano conto anche del contesto urbano in cui sono inserite.
Negli anni, il lavoro di Daniel Libeskind è stato insignito di riconoscimenti prestigiosi, tra cui possiamo menzionare:
Il portfolio di progetti realizzati dallo studio è molto variegato e comprende un’ampia gamma di edifici e masterplan urbani in tutto il mondo: musei, sale concerti, centri congresso, hotel, centri commerciali e universitari.
Tra le opere più rinomate ed apprezzate ci sono:
Il Museo Ebraico di Berlino e la ricostruzione di Ground Zero a New York rappresentano due progetti dall’altissimo valore non solo architettonico, ma anche simbolico.
Per quanto diversi, si tratta di due lavori carichi di significati e di memorie: accomunati dall’idea che l’architettura sia un linguaggio in grado di esprimere la storia di un luogo e l’anima della comunità per cui nasce, attraverso le forme, gli spazi, la luce.
Alla base di questi, come di ogni progetto dello Studio, c’è sempre una costante ricerca di innovazione ed un approccio rivolto alla sostenibilità, che si traduce anche nel rispetto delle città nelle quali le opere verranno realizzate.
Un concetto espresso più volte da Yama Karim nella nostra intervista, durante la quale l’architetto - che ha progettato tra le altre cose, la Downtown Tower di Vilnius e il complesso residenziale Corals a Keppel Bay (Singapore) -, ci ha parlato anche della gestione del masterplan e della riqualificazione dell’ex quartiere fieristico di Milano e degli altri progetti residenziali realizzati nella città lombarda.
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Manni Group: L'architettura di Libeskind ricorda un'opera d'arte simile alla scultura. Ma dietro a questa complessità, qual è il ruolo dello studio riguardo alla sostenibilità?
Yama Karim: Penso che la cosa da considerare è questa: design e sostenibilità non sono due cose separate. Nel plasmare e dare forma all'architettura si deve essere consci di quale sia l’intenzione nel contesto e nel sito.
Molte delle nostre forme si basano effettivamente sulla luce, sulla circolazione e sull’aria. E non lo dico con l’obiettivo di essere misterioso.
Lo intendo in un modo molto letterale, perchè a volte a causa del modo in cui noi stessi parliamo del nostro lavoro, che può essere incentrato sulla storia e sul tipo di poetica, dimentichiamo l'incredibile quantità di questioni pratiche che influenzano la creazione della forma.
Direi che il più delle volte, le nostre forme guardano proprio alla sostenibilità.
Abbiamo realizzato una torre nel centro di Varsavia, in Polonia. - racconta Karim - La prima realizzazione iconica dopo l'era stalinista, che si trova di fronte al Palazzo Culturale di Stalin. Il concetto alla base della torre era "l'ala dell'aquila si alza di nuovo".
Diciamo che, alcune persone guardando la torre hanno esclamato: “Oh! Hanno realizzato l'edificio che ricalca l'ala di un'aquila, ma non è un po’ troppo artistico o troppo guidato dalla scultura?!”.
La realtà è che ci sono sempre due aspetti da considerare in qualunque storia.
Quella forma deriva in realtà dal calcolo molto preciso del tracciamento del sole attraverso gli spazi. Perchè a Varsavia qualsiasi nuovo edificio, specialmente nel contesto urbano, deve consentire un minimo di 90 minuti di luce diurna agli edifici residenziali adiacenti.
Di fronte al nostro progetto c'era un blocco residenziale comunista alto cinque piani, fatto di cemento, e abbiamo dovuto calcolare e dimostrare che ogni singola finestra, compresi i loro bagni, avrebbero ottenuto almeno 90 minuti di luce diurna.
Il riflesso del sole da quelle finestre crea un’ulteriore superficie e quindi il lato pratico di quella forma è la massimizzazione dell'involucro dell'edificio, il centro di quell'arco, è infatti, la parte più stretta dell'edificio.
E poiché il sole si muove lungo la sua traiettoria, l'edificio è in grado di allungarsi sia nella parte inferiore che superiore, guadagnando effettivamente spazio in alto e in basso.
Questo è per noi rispondere all'ambiente: si tratta di utilizzare la luce e l'aria, che sono componenti essenziali della sostenibilità, per plasmare i nostri edifici.
La torre di Varsavia mostra anche un ulteriore elemento legato all’aria: abbiamo lavorato con i nostri ingegneri, per assicurare un corretto ricircolo d’aria anche sopra una certa altezza, dove non è permesso avere finestre apribili.
Quindi, abbiamo introdotto delle prese d'aria dedicate direttamente nel sistema della facciata..
Quelle prese d'aria sono state collegate a dei sensori, che se la temperatura va al di sotto di una certa soglia o il vento supera una certa velocità, le fanno chiudere automaticamente.
Crediamo fortemente che la sostenibilità riguardi l'umanesimo e non solo la creazione di uno spazio meccanico, ma la creazione di uno spazio che abbia effettivamente aria fresca e luce diurna naturale.
Quindi, ci avviciniamo alla sostenibilità da più direzioni. Penso che non sia solo tecnologia, ma anche forma, luce e aria.
Manni Group: Davvero impressionante. Studio Libeskind spinge verso soluzioni estreme e perfezione nelle forme. In quale momento decidi quale tipo di tecnologia sia la più adatta al progetto? E quando scegli, ad esempio, la struttura in acciaio?
Yama Karim: Ci sono due aspetti da considerare. Per usare le tue parole, le "forme estreme" o "forme radicali", crediamo che ci aiutino a innovare. Spingendo noi e i nostri ingegneri ad essere più creativi.
Questo approccio ci aiuta a superare i limiti, non solo in una sorta di cliché, bensì ci aiuta a sfidare ciò che l'industria sa.
La scelta della tecnologia, ovviamente ha molto a che fare con ciò che ha senso per la forma che dobbiamo creare.
Ad esempio, se hai una grande struttura a sbalzo, probabilmente non utilizzeremo mattoni, giusto? Sarà molto più indicata una struttura in acciaio o una struttura composita.
L'altra cosa che facciamo è che vogliamo capire, e lo prendiamo molto sul serio, ciò che è disponibile in quel mercato specifico. È davvero importante scegliere il materiale e la tecnica adatti a quel paese, o quella regione, o quella città.
Un esempio, a volte realizziamo un tipo di strutture a griglia complesse, che si intersecano tra loro. E in genere lo facciamo in acciaio, perché è semplicemente più sensato farlo come una struttura in acciaio.
A Dresda è stata fatta con l’acciaio. La Glass Courtyard a Berlino è stata realizzata in acciaio.
Abbiamo poi seguito un progetto a San Paolo in Brasile e, ovviamente, lo abbiamo disegnato con l’acciaio. Perché quelle erano le impostazioni di default e il cliente è tornato dicendo: “Non siamo a nostro agio con l'acciaio, lo faremo con il cemento”.
E noi abbiamo detto: “Siete impazziti? Perché dovreste farlo in cemento? Sembra molto più difficile!”. Ma per loro non lo era, in realtà era un elemento conosciuto. Avevano la manodopera, avevano le tecniche e hanno fatto un bellissimo lavoro realizzandolo con il cemento.
Quindi la selezione non è solo la selezione delle preferenze, ma anche la comprensione del mercato o del contesto, e questo aiuta molto.
Un altro esempio è stato l’utilizzo della nostra lastra sviluppata con Casalgrande. Avevamo due progetti, entrambi della stessa scala, entrambi residenziali, da realizzare in due grandi città: Milano e Berlino.
In genere, quando realizziamo una struttura con lastre o una struttura di rivestimento, avendo noi una sorta di background tedesco, essendo l’ufficio nato in Germania, abbiamo una mentalità svizzero-tedesca e ora anche italiana, dove teniamo molto ai dettagli e alla precisione, perché più le forme sono complesse, più preciso devi essere.
Abbiamo pensato che la lastra che avremmo utilizzato per il progetto a Milano sarebbe stata utilizzata come facciata ventilata,a giunto aperto, l'aria l’attraversa. Non chiude l'involucro.
E quindi abbiamo pensato che questa sarebbe stata la soluzione adeguata, e poi, di nuovo, ci siamo resi conto che cercare di trovare la forza lavoro adeguata o individuare l'appaltatore giusto che si sentisse a suo agio nel farlo in quel modo si è rivelato un percorso in salita, una sfida non necessaria, insomma.
Accettare e scegliere di utilizzare il sistema a giunto chiuso stuccato è stata la decisione migliore che si potesse prendere, perché lo hanno fatto perfettamente.
Non ci sono stati problemi, il risultato è stato bellissimo, e lo hanno fatto con la massima precisione.
Poi però abbiamo usato la stessa identica lastra per una versione diversa del nostro design a Berlino. Lì i costruttori non volevano farlo chiuso, hanno insistito per fare una facciata ventilata ed eravamo lieti della scelta, perché lo hanno fatto perfettamente.
Quindi, lo stesso materiale, due contesti diversi, due tecniche molto diverse come soluzioni.
Manni Group: Dalla tua risposta si evince anche che un certo tipo di soluzione si può ottenere solo grazie ad un controllo estremamente preciso e profondo anche delle fasi di esecuzione.
Quindi, vorremmo sapere sapere quale è stata, nella tua esperienza, la sfida più complessa che hai affrontato, nella tua collaborazione con Studio Libeskind?
Yama Karim: In realtà è una domanda difficile perché ce ne sono state così tante.
Ė interessante che tu abbia menzionato prima, che voi siate disponibili ad aiutare con le parti noiose. In realtà, non troviamo quell’aspetto noioso.
Pensiamo che una parte del processo creativo è la soluzione tecnica. Quindi tendiamo a dare rilievo a questa parte.
E sorprendiamo anche i nostri clienti quando insistiamo per essere coinvolti fino alla fine, a prescindere da quale sia la percentuale del nostro scope.
Se abbiamo il 50% dello scope architettonico, non vogliamo applicarlo solo alle fasi di progettazione o solo al primo 50% dello sviluppo progettuale. Vogliamo applicare quel 50% in tutte le fasi e vogliamo avere una collaborazione uniforme durante l'esecuzione.
La nostra volontà di rimanere coinvolti non è solo per ottenere più lavoro, ma perché, per noi non ha senso chiedere a un designer di creare qualcosa di unico e lavorare con le geometrie che abbiamo imparato e sviluppato per 30 anni, per poi consegnare quel progetto a un ufficio locale che non ha la stessa esperienza.
Possono essere assolutamente professionali, possono essere molto competenti, ma non hanno lo stesso tipo di esperienza con queste complessità.
Quindi, in ogni progetto, dobbiamo convincere il nostro cliente che averci coinvolti nei dettagli è in realtà un modo per loro di risparmiare denaro.
Perché, potrebbero provare a risparmiare qualche migliaio di dollari sulle commissioni di progettazione, perché pensano di poter ottenere un prezzo migliore coinvolgendo esclusivamente gli architetti locali.
Ma saranno colpiti molto duramente quando l'appaltatore chiederà loro un prezzo maggiorato perché staranno guardando qualcosa che è per loro insolito. E così aumentano i loro prezzi del 50% o del 100%.
Quindi diciamo: “Hai bisogno che noi parliamo con l'appaltatore, perché gli possiamo mostrare e dimostrare che ciò che sta guardando può sembrare diverso, ma si basa sulle tecniche che conosce e può essere eseguito con gli stessi materiali che ha sempre usato e che è in grado di usare”.
Quindi, il cliente potrebbe spendere qualche centinaio di migliaia di dollari in più in commissioni, ma il progetto potrebbe risparmiare qualche milione sulla realizzazione e sull’esecuzione.
Questo non significa in alcun modo che i partner locali non siano necessari. Ci piace tantissimo lavorare e collaborare con loro.
Ma il modo in cui vogliamo farlo, per eseguire questi progetti molto complessi, è che li vogliamo coinvolti dall'inizio, e vogliamo rimanere coinvolti fino alla fine.
In modo che ci sia una proprietà da entrambe le parti. Perché vogliamo che i nostri architetti locali si sentano parte del processo creativo, che possiedano questo progetto tanto quanto noi.
Perché se sentono la proprietà del design, se ne prenderanno maggiore cura e capiscono come difenderlo.
Ora, con ciò non ho risposto alla domanda nello specifico. Se posso fare una domanda, quale progetto pensi sia stato il più impegnativo architettonicamente o dal punto di vista del design?
Manni Group: Quello di Milano potrebbe essere un buon esempio.
Yama Karim: Milano ci ha sfidato nell’utilizzo della tecnologia in un modo davvero unico, e abbiamo finito per usare il GPS.
Gli appaltatori hanno usato il GPS per tracciare e puntare i diversi angoli dei balconi, ad esempio. Quando vedi la complessità delle forme del balcone, è stato fatto con l’uso del GPS accoppiato con delle corde tirate da un punto all’altro.
Essere in grado di combinare tecniche del passato e tecniche del mondo nuovo è stata la chiave di volta del progetto. Quindi non diamo per scontato che siano solo i computer a sapere come fare le cose, ad essere avanzati.
Il coinvolgimento è fondamentale. E questo ci ha permesso di creare queste geometrie incredibilmente complesse ma utilizzando tecniche molto comuni.
E ci ha anche permesso di creare queste forme molto scultoree senza rendere gli edifici complessi in termini di prestazioni o di costi. Quindi, l’elemento scultoreo a Milano non è l'involucro dell'edificio, l'involucro dell'edificio è dietro i balconi ed è una parete dritta.
In realtà, è un edificio molto pratico. Se togli i balconi, è una struttura molto normale, comprensibile ed economica. E in effetti questa forma scultorea ti consente di realizzare finestre e porte standard dietro di essa. Quindi questa è stata una sfida che penso abbiamo superato.
La curvatura della facciata di Milano e in quella struttura ovviamente, penso che tu possa solo immaginare che fosse una sfida strutturale.
Il fatto che anche in Italia sia così, se costruiamo una torre a New York sarà in acciaio o cemento, probabilmente sarà una combinazione. In Inghilterra probabilmente più acciaio e a San Francisco, a causa dei terremoti, è bene usare più acciaio.
A Milano, invece, sarebbe stato un composito. Quindi le colonne di cemento nella parte inferiore, che sono ad un angolo abbastanza obliquo, quelle sono rivestite in acciaio.
Quindi è una struttura composita che ha un involucro in acciaio riempito di cemento e non devi necessariamente scegliere l'uno o l'altro, puoi anche creare un sistema ibrido.
Ed è quello che abbiamo fatto a Milano: le persone dimenticano quanto il vetro sia effettivamente flessibile, e lo abbiamo impiegato proprio per la curvatura della facciata evitando così l’utilizzo di un vetro curvato personalizzato.
Anche la curvatura sulla parte anteriore dell’elevazione era piana in un punto, e poi è diventata graduale e così quella sfida è stata iniziata con una sfida tecnica, che ha a che fare con il riflesso.
A causa della curvatura, gli ingegneri avevano paura che quei riflessi potessero finire sulla piazza e ustionare le persone. Se ricordate, il momento in cui stavamo eseguendo i dettagli per questo progetto, è coinciso con l’edificio Walkie-Talkie a Londra.
L’edificio di Rafael Viñoly aveva una curvatura che creava un riflesso sulle auto e ne aveva sciolto alcuni pezzi. Fu considerato abbastanza pericoloso e quindi il nostro cliente e i nostri ingegneri non l'avrebbero approvato.
Avremmo potuto reagire e dire: “No, insistiamo! Noi siamo gli autori, siamo gli artisti, e le sculture non si possono cambiare”. Ma, invece, abbiamo visto quella sfida tecnica come un'opportunità per creare un nuovo design.
Un nuovo tipo di linguaggio per la facciata e per distinguere la parte anteriore da quella posteriore. E non potremmo essere più soddisfatti dei risultati.
Quindi non vediamo gli aggiustamenti dati da componenti tecnici come compromessi, vediamo questi aggiustamenti come opportunità per essere creativi e trovare soluzioni uniche.
Penso che questo abbia aiutato il progetto di Milano, che renda la torre ancora più unica rispetto alla sola forma che aveva una volta.
Se metti insieme un gruppo di persone e ti circondi di ottimisti, e questo include anche gli ingegneri. Non vediamo i nostri ingegneri come persone noiose che macinano numeri, li consideriamo un'estensione del team creativo.
Non è necessario avere la soluzione all'inizio del design, l'importante è permettere al design di evolversi con la tecnologia.
Quindi non entriamo mai in un progetto pensando che sia impossibile. Ci dedichiamo al progetto sapendo che la soluzione potrebbe essere inaspettata. La soluzione non è sempre qualcosa a cui puoi pensare prima di essersi immersi nel processo.
Il museo militare di Dresda non è stato una grande sfida. Lo avevamo imparato dal museo ebraico di Berlino, dove il sistema di finestre e il rivestimento erano molto complessi.
Abbiamo scoperto che dopo la resistenza iniziale e la paura nel capire come avremmo realizzato queste geometrie, e come avremmo costruito queste finestre, gli operai si sono sentiti molto più coinvolti e sono stati molto più precisi.
È diventato un motivo di orgoglio per loro riuscire a realizzarlo ed a farlo magnificamente bene.
È diventata una sorta di opportunità per renderli parte di questa sfida, si sono sentiti parte dell’architettura tanto quanto lo sciocco architetto che crea solo forme divertenti e poi si aspetta che siano gli altri ad affrontare il problema.
Erano davvero coinvolti e penso che probabilmente ciò si potrebbe dire di qualsiasi cosa nella vita. Se non lo fai, se non vieni messo alla prova, sei come un sonnambulo con la presunzione di sapere come fare, e non hai davvero bisogno di stare in piedi per farlo, puoi farlo rimanendo sdraiato.
Quindi penso che le geometrie impegnative producano precisione e creino innovazione.
Manni Group: Eccoci arrivati all’ultima domanda. Hai fornito una panoramica molto ampia del ruolo dell’architetto, degli ingegneri, e in realtà di tutti gli attori coinvolti in un progetto.
Volevamo da te un consiglio per i giovani architetti e designers che sono là fuori e che stanno frequentando questo corso.
Yama Karim: È interessante. Penso che ci siano due elementi da considerare.
Ho la possibilità di chiamare Daniel Libeskind il mio partner, ma è stato in realtà il mio mentore e qualcuno da cui ho imparato molto e che mi ha dato non solo molte opportunità, ma tanta fiducia nel poter consentire a me stesso di essere completamente coinvolto nel design che creo.
Penso che come giovane architetto, ci sono un paio di cose che vorrei parafrasare. La prima: l’architettura o qualsiasi pratica che riguardi la costruzione è intrinsecamente una pratica ottimistica.
Il che significa che in così tanti campi, come la scrittura o la regia, tu potresti avere un approccio pessimistico o cinico. Potresti avere un romanzo cinico o oscuro, ma in architettura non puoi! Perché fin dall'inizio credi nel futuro.
Nel momento in cui inizi a disegnare si parla del futuro. Nel momento in cui inizi a disegnare per costruire, si tratta di avere la convinzione che ci sia un futuro luminoso ed è per questo che costruiremo.
Quindi penso che essere ottimista e di mentalità aperta siano elementi molto importanti. L’altra cosa che trovo estremamente utile, che mi tocca personalmente, mentre vai avanti, attraverso la scuola e nella professione, è più importante avere grinta piuttosto che avere un obiettivo.
Penso che tante persone presumano che per avere successo tu debba avere un obiettivo, stabilisci quell'obiettivo e cerchi di raggiungerlo.
Ma il problema spesso è che quando senti di avere un obiettivo molto chiaro, la tua mente o i tuoi occhi potrebbero non essere aperti lungo la strada per nuove opportunità e nuovi risultati, che potrebbero essere migliori del tuo primo obiettivo.
Quindi, grinta e ottimismo. Penso sia l'unico vero consiglio che posso dare, perché il resto non ha una formula.
In parte è solo fortuna, in parte si tratta di essere nel posto giusto e al momento giusto, in parte si tratta solo di rendersi disponibili e non essere troppo rigidi su quella che pensi sia la situazione ideale per te.
Quindi una mente aperta, ottimismo e determinazione. Immagino sia questo il mio consiglio per i giovani architetti e ingegneri.
Manni Group: Molto, molto stimolante, Grazie.
Leggi le parole dei principali attori dell'architettura internazionale nelle interviste agli Archistar di Manni Group realizzate in collaborazione con Yacademy. Un contenuto dedicato ai nuovi paradigmi dell'architettura sostenibile e alle idee di progettazione del futuro.