Quale mentalità dovrebbero avere gli architetti per potersi spingere sempre di più verso un tipo di architettura che sia sostenibile e alla portata di tutti?
Come facciamo ad essere sicuri che l’architettura sociale si stia davvero concentrando su come risolvere disuguaglianze nei paesi in via di sviluppo e non sia semplicemente un’operazione di Marketing?
Questi sono alcuni degli argomenti che Daniel Elber e Ambra Gazziero di Manni Group hanno discusso con Anupama Kundoo, architetta Indiana conosciuta per il suo impegno nella risoluzione di problematiche umanitarie.
L’intervista fa parte di Architectural Talks, la serie di Manni Group che raccoglie le opinioni degli architetti e analizza i loro sforzi per costruire un futuro più sostenibile.
Ecco cosa troverai in questo articolo:
Anupama Kundoo nasce a Pune, in India, nel 1967 e si diploma in architettura all università di Bombay nel 1989.
Dall’anno successivo fino al 2002 lavora ad Auroville, “città sperimentale” ideata dall’architetto Roger Anger come un luogo di unità nel quale le persone vivono in armonia indipendentemente da credi politici e religiosi.
Nel 2005 insegna all’Università Tecnica di Berlino e, nel corso degli anni, lavora anche alla Parsons School of Design di New York, all'Università del Queensland a Brisbane e alla European School of Architecture and Technology dell’Universidad Camilo José di Madrid.
Come spiega lei stessa nella sua presentazione nel suo sito ufficiale, per lei costruire significa soprattutto creare conoscenza, la stessa che poi potrà essere applicata anche sul campo: per questo, il suo metodo di lavoro si concentra nello sfruttamento dell’innovazione e della ricchezza socioeconomica che vengono generate dalla ricerca e dagli investimenti in materiali e tecniche di costruzione.
Tra le opere progettate da Anupama Kundoo possiamo citare:
Nel corso dell’intervista, Anupama Kundoo spiegherà come l’architettura dovrà evolversi in futuro per continuare ad essere al servizio dell’umanità, i motivi per cui nessun paese in via di sviluppo non dovrebbe essere lasciato indietro e come fare per evitare che accada e qual è l’approccio filosofico che sta alla base del successo della società, indipendentemente dal campo in cui si lavora.
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Di seguito riportiamo la nostra intervista a Anupama Kundoo.
Daniel Elber: Il suo studio è riconosciuto per il suo impegno sul fronte dell’architettura sociale e umanitaria. Secondo lei, le tecnologie per la costruzione e la prefabbricazione a secco si sono dimostrate utili per i progetti umanitari?
Anupama Kundoo: Penso che ci sia ancora molto lavoro da fare. Vorrei cominciare questa risposta partendo dal fatto che la popolazione mondiale sta tuttora crescendo e, nonostante il progresso tecnologico, l’umanità non sta producendo la riduzione della richiesta di energia pro-capite.
A livello globale, ci sono molti paesi che stanno iniziando ad urbanizzarsi soltanto adesso: il rapporto di risorse umane per persona è diminuito ma la richiesta è cresciuta tantissimo.
Questo non significa che non sia possibile soddisfare la richiesta ma le abitudini di costruzione attuali non garantiscono che il tipo di architettura che viene utilizzato di norma sia alla portata di tutti, né si sta ragionando in termini di sprechi e di ottimizzo di energia.
So che ci sono parecchie aziende che si stanno dando molto da fare in questo campo ma chiaramente non si è ancora raggiunto un tipo di approccio olistico.
Ci siamo resi conto che durante la rivoluzione industriale abbiamo cominciato a produrre qualsiasi cosa aumentando lo standard più del necessario. Ma, se da una parte c’è un tiro alla fune, dall’altra dovremo trovare una soluzione che mantenga la densità edilizia compatta e bisognerà fare molta ricerca e innovazione sui materiali per poter costruire più velocemente ad alta densità.
Tutte i popoli sono migranti: nessuno è attaccato alle proprie radici, tutte le società stanno cambiando e non si può tornare indietro dalla globalizzazione, per cui siamo costretti a maggiore compattazione nelle nostre città visto che cambierà anche la mobilità.
In passato, ci siamo espansi e abbiamo avuto bisogno dell’automobile, ora ci stiamo dirigendo verso una mobilità futura più densa e avremo bisogno di compattazione anche a più piani.
Quindi, non dobbiamo soltanto fare ricerca su scala umana: a mio parere, gli architetti dovranno impegnarsi molto anche per realizzare una paesaggistica che sia sostenibile.
Auspicabilmente, le industrie stanno cercando di capire come ottimizzare l’impatto di queste tecnologie. Guardo sempre con molta speranza tanto alle industrie quanto al mondo accademico per capire quali siano le vere problematiche della nostra società, in modo da poter collaborare con loro per rispondere in maniera rapida e conveniente.
È la necessità del momento: penso che abbiamo davvero bisogno di nuove strategie per poter ripensare la materialità dell’habitat urbano.
Ambra Gazziero: Mi sembra che lei abbia parlato di questo anche durante la sua Masterclass oggi. Stiamo osservando molto clamore intorno all’architettura sociale e, dato che in passato abbiamo coniato l’espressione “greenwashing”, c’è stato bisogno di crearne un’altra per il social washing. Vorremmo sapere, secondo lei, quali sono i criteri di base e i valori fondamentali che assicurano che l’architettura sociale non sia un’operazione di marketing ma che si concentri per davvero sui veri bisogni comunitari.
A.K.: La cosa più importante è che non ci sia un contrasto molto netto tra chi vive in realtà diverse: gente che non ha la possibilità di coprire questi bisogni.
Secondo me, a volte, le abitudini tecnologiche di costruzione e mantenimento rischiano di creare alienazione nelle persone. Capita che le tecnologie siano così avanzate che solo poche compagnie estere riescono andare sul posto e dare soluzioni e questo tipo di approccio può portare a costi e spese generali molto alti.
Quello che succede in questi posti è che un piccolo settore diventa un’élite perché solo loro possono permettersi quel tipo di tecnologia e magari tutti gli altri non riescono nemmeno ad avere bagni personali.
Questa è la realtà di molti stati in via di sviluppo e credo siano problematiche serie. Però, di nuovo, la risposta non è stereotipare il sociale in modo paternalistico, come se dovessimo fare loro un favore perché sono poveri. Non c’è bisogno di sfruttare la loro povertà.
L’idea è quella di cercare di capire come noi, in quanto società, possiamo creare ricchezza dove c’è povertà.
Per farlo, dobbiamo creare eccedenza economica in modo che quei paesi possano continuare a fare le loro attività e contemporaneamente spendere il denaro in più nella ricerca, come si fa nell’industria, ma vogliamo che tutti crescano di molto e che abbiano l’opportunità di farlo e non che, con la creazione di nuove tecnologie, alcuni vengano lasciati indietro: tutti dovrebbero poter prendere questo treno.
La definizione di progresso dovrebbe essere estesa e credo che sia nelle abitudini materiali che possiamo scoprire davvero quanto siamo inclusivi.
Non ritengo che sia socialismo o paternalismo: penso che sia capire che sono la sostenibilità, l’educazione e un accesso al progresso in una maniera filosofica più ampia che ci faccia sentire tutti connessi, che creano collaborazioni e che ci permettono di goderci i progressi di tutti, senza lasciare indietro nessuno.
È un approccio molto umano che riguarda qualsiasi professione. Soprattutto dopo la pandemia, la gente ha capito cosa voglia dire essere umani ed essere connessi: è alla base del nostro successo come società.
Sono certa che qualsiasi discriminazione, di genere e non solo, possa essere eliminata soltanto attraverso la sensibilità di tutti. Non vuol dire farne una battaglia, una nuova polarità o una nuova religione.
A.G.: La ringrazio molto, l’ho trovato illuminante e pertinente con l’ultima domanda che riguarda la connessione tra l’architettura sociale e la sostenibilità, in modo da poter capire ancora meglio quale sia il parere del suo studio a proposito dei loro punti in comune. Presumo, come ha detto nella sua conferenza, che sia importante sottolineare l’identificazione di materiali, tecniche o tecnologie che si possono trovare in determinate aree ma vorrei che ci dicesse la sua opinione a riguardo.
A.K.: Nella mia mostra al Museum of Modern Art del Louisiana e più recentemente in quella personale ho messo in chiaro che siamo quello che facciamo e per me questa è la cosa più importante.
Immaginiamo che io stia lavorando all’uncinetto o facendo origami: capirò come si fa facendolo. Se non si fa qualcosa, non ci si sviluppa: la conoscenza viene inglobata nel processo di crescita della nostra mente.
A volte, mi sembra che le persone vengano lasciate indietro e questo è il problema. Se diventiamo consci del contesto sensitivo nel quale applichiamo quello che conosciamo, allora non saranno solo le persone a trarne benefici ma anche la tecnologia.
Il cemento, per esempio: molte aree che verranno colpite dal cambiamento climatico potranno ricevere aiuti da chi lo produce.
Allo stesso tempo, anche chi si troverà ad applicare il cemento in una zona nella quale non è mai stato applicato prima capirà altre questioni sociali e ciò lo aiuterà a inventarsi in un’altra maniera.
Secondo me, tutto gira intorno all'interdisciplinarietà, all’interconnessione e all’interrelazione: se rimaniamo olistici, produciamo un equilibrio.
Vorrei chiudere dicendo che sostenibilità significa pensiero globale e senso di connettività e questo renderà tutto quello che facciamo olisticamente sostenibile.
Leggi le parole dei principali attori dell'architettura internazionale nelle interviste agli Archistar di Manni Group realizzate in collaborazione con Yacademy.